Ultimo aggiornamento: 3 Agosto 2020
E’ tra gli esperimenti psicologici più famosi di sempre. Oltre ad aver ispirato diversi film (tra cui cito: “The Experiment“, 2001, Germania, poi rifatto negli Stati Uniti nel 2010 ed: “Effetto Lucifero“, 2015, Stati Uniti) fino a qualche anno fa era considerato la prova definitiva della cattiveria insita nell’animo umano, la cartina tornasole dei risultati del Milgram Experiment.
Recenti rivelazioni dei partecipanti all’esperimento, tuttavia, gettano ben più di un’ombra sull’effettiva scientificità dell’esperimento e sulla validità delle conclusioni che se ne trassero.
Lo Stanford Prison Experiment iniziò il 17 Agosto 1971. Ideatore e supervisore unico dell’esperimento fu il Professor Philip Zimbardo, ai tempi un giovane docente di psicologia dell’Università di Stanford, California.
Per l’esperimento il Professor Zimbardo reclutò, attraverso annunci nei giornali locali, 75 giovani uomini, studenti. Tra questi ne vennero selezionati 24, scelti tra coloro che presentavano sana costituzione, stabilità mentale e rispetto per le regole. Altri 12 ragazzi furono selezionati come “riserve”. Tutti firmarono una consenso informato [Consultabile QUI. PDF, Eng]. che ne ufficializzava la partecipazione.
L’esperimento aveva come finalità il rispondere a uno dei dubbi più triviali sulla natura umana: siamo intrinsecamente buoni o cattivi? Chiunque, non importa il patrimonio personale, l’istruzione o lo status sociale, ha la potenziale capacità di tirar fuori un illimitato sadismo? E in caso affermativo, una situazione di squilibrio della gestione del potere in una determinata situazione può risvegliare un mostro?
Il contesto sociale e mediatico in cui si svolge l’esperimento è particolarmente propizio. Sono gli anni ’70, i tempi dell’arresto e della condanna della Manson Family per l’assassinio di Sharon Tate, sono i tempi dei reportage dalla guerra in Vietnam, video e reperti fotografici della Seconda Guerra Mondiale vengono portati alla luce quotidianamente e sbattuti in prime time. Sono tempi mediaticamente violenti, e l’esperimento della “prigione” di Stanford risponde ai dubbi della massa, nonché ghiotta occasione di carriera per il Prof. Zimbardo.
Lo Stanford Prison Experiment consisteva nel dividere casualmente i volontari in due gruppi, che sarebbero stati monitorati dalle telecamere in ogni momento. C’erano 12 prigionieri e 12 guardie. Lo stesso Zimbardo si ritagliò un ruolo nella messinscena: era il “sovrintendente”, indossava occhiali da sole scuri, un abito e una cravatta scuri. Alle guardie fu impartito l’ordine di non aggredire fisicamente i prigionieri. Al di là del divieto dell’uso della violenza avevano pressoché carta bianca per soggiogare e intimidire i prigionieri.
Diciassette regole furono stabilite e comunicate ai partecipanti, tra cui:
1. I prigionieri devono rimanere in silenzio durante i periodi di riposo, dopo le luci spente, durante i pasti e ogni volta che lo fanno
sono fuori dai cortili della prigione.
2. I prigionieri devono mangiare durante i pasti, e solo durante il periodo in cui vengono serviti i pasti.
…
10. Ai prigionieri saranno concessi 5 minuti nel gabinetto. Nessun prigioniero sarà autorizzato a tornare al gabinetto entro 1 ora dopo un periodo di gabinetto programmato.
…
17. La mancata osservanza di una delle regole di cui sopra può comportare una punizione.
L’elenco completo delle diciassette regole per i prigionieri sono consultabili qui: “PRISONER RULES PREPARED BY THE WARDEN AND GUARDS” (PDF, Eng)
La “prigione” era stata allestita nel seminterrato del dipartimento di psicologia di Stanford. Nelle celle non c’erano finestre e non c’era modo di sapere se fosse giorno o notte. I prigionieri furono perquisiti e costretti a rimanere completamente nudi nel corridoio in attesa dell’assegnazione della loro cella.
Ad ognuno dei prigionieri fu fatto indossare un sacco largo, senza biancheria intima; con i genitali a penzolare da sotto quello che Zimbardo chiamava “vestito”, i movimenti erano ovviamente lenti e circospetti. Sulla testa di ogni prigioniero fu apposto un collant da donna, sia per simulare una testa rasata [ulteriore depersonalizzazione dell’individuo, oltre a non aver più un nome ma solo un numero. N.d.R.] che per renderlo meno mascolino.
Le guardie, viceversa, avevano ricevuto uniforme, manganello e occhiali da sole a specchio. Facevano turni di otto ore e, a differenza dei prigionieri, potevano tornare a casa al termine della loro giornata di lavoro. La loro autorità era assoluta: se un prigioniero voleva parlare, doveva chiedere il permesso ad una guardia. In caso avesse avuto urgenza di andare al gabinetto, e il permesso fosse stato negato, il prigioniero avrebbe dovuto usare un secchio nella sua cella, che sarebbe lasciato in stanza (ricordiamo: senza finestre) per tutta la notte.
Chiunque avesse disobbedito agli ordini sarebbe stato posto in isolamento in un locale buio e angusto che, ai fini del realismo sociale, era chiamato “il buco” (“the hole”).
La cronaca dell’esperimento
Nonostante tali dure condizioni, il primo giorno fu tranquillo e privo di eventi di interesse.
Ma solo 24 ore dopo, il secondo giorno, ci fu una rivolta dei prigionieri: tolte le calze dalla testa usato i materassi delle loro celle per barricarsi dalle tre guardie di turno, le quali chiamarono guardie volontarie fuori servizio, che giunte sul posto svuotarono, letteralmente, gli estintori sui detenuti.
Già al terzo giorno si ebbe la prima defezione. Il detenuto # 8612 fu rilasciato a causa di un esaurimento fisico e nervoso.
“Lo abbiamo fatto con riluttanza perché credevamo che stesse cercando di ingannarci“, scrisse Zimbardo in una storia del 1973 per il New York Times Magazine. “Era inimmaginabile che un prigioniero volontario. in una finta prigione. potesse essere realmente sofferente e disturbato fino a quel punto“.
Il detenuto # 8612 fu rimpiazzato da un altro volontario, inizialmente scartato.
Le guardie ebbero il loro da fare al quarto giorno: circolava la voce che il detenuto appena arrivato stesse pianificando un’altra rivolta, questa volta contando sull’aiuto dall’esterno. L’intera “prigione” fu rapidamente trasferita in un altro piano del dipartimento di psicologia e un altro detenuto subì un esaurimento. Anche lui fu rilasciato, rimpiazzato da un altro volontario di riserva nei successivi due giorni.
Un’altra riserva, il quinto giorno, fu convocata a sostituire un detenuto rilasciato a causa di un grave rash cutaneo provocato, si dice, dal non aver ottenuto una libera uscita dal -finto, ovviamente- Consiglio della Libertà Condizionale.
In soli cinque giorni le guardie avevano ideato, e messo in pratica, punizioni e umiliazioni ben oltre il confine del sadismo: in un caso ad un detenuto fu imposto di lavare la latrina nella sua cella a mani nude.
A parere di Zimbardo il successo dell’esperimento era totale e le scene immortalate dalle telecamere confermavano risultati inequivocabili.
Il sesto giorno la prigione fu visitata dalla fidanzata di Zimbardo, Christina Maslach, che aveva appena completato il dottorato a Stanford. “(appena giunta nella “prigione”) Ho incontrato una guardia che sembrava simpatica, gentile e affascinante“, ha riferito allo Stanford Magazine nel 2011. “E poi l’ho visto nel cortile più tardi e ho pensato,” Oh mio Dio, cosa è successo qui? “… Mi prese male allo stomaco, mi sentii fisicamente malissimo. ” (Fonte: “The Menace Within”, Stanford Magazine, Agosto 2011)
La Maslach disse a Zimbardo che quello che stava facendo era moralmente sbagliato e che doveva smettere. Zimbardo, forse rendendosi conto di essere troppo coinvolto nel suo stesso esperimento, lo fermò.
Dopo soli sei giorni, lo Stanford Prison Experiment era terminato.
I risultati dell’esperimento trovarono spazio, nelle parole dello stesso Zimbardo, nel già citato articolo del 1973 sul New York Times Magazine: “The mind is a formidable jailer” (HTML, Eng). Autorevole quanto si vuole, per carità, ma non di certo una rivista scientifica peer-reviewed.
Nonostante questo, lo Stanford Prison Experiment ha costituito materia di studio per aspiranti psicoterapeuti, è tutt’ora citato in pressoché ogni testo di base di psicologia ed è stato accettato così, “as is”, “visto e piaciuto”, senza quasi alcun contradditorio.
Nell’articolo su New York Times, Zimbardo sostenne che l’esperimento gettava nuova e preziosa luce sui lati più oscuri della natura umana.
“Fino a che punto ci costringiamo ad essere imprigionati accettando docilmente i ruoli che ci vengono assegnati?“, scrisse. “La prigione della paura costruita nelle illusioni del paranoico non è meno limitata o inferiore alla cella che ogni persona costruisce per limitare la sua libertà personale, nell’ansia, il timore di essere ridicolizzata e respinta dalle sue guardie – spesso guardie di sua propria creazione.”
Questa era la tesi che Zimbardo voleva dimostrare con l’esperimento, e che l’esperimento confermò. Ma su queste pagine, altre volte [esempio 1 , esempio 2. N.d.R.], abbiamo già visto che il bias dello scienziato troppo innamorato delle sue convinzioni non porta a nulla di buono.
E infatti, 40 anni dopo, le magagne dello Stanford Prison Experiment iniziano a venire fuori…
Più di 40 anni dopo, lo Stanford Prison Experiment viene ancora spesso citato come evidenza della disumanità dell’uomo nei confronti dell’uomo. Il fatto che fosse stato stato condotto 10 anni dopo il famigerato esperimento Milgram – in cui i volontari erano indotti a somministrare scosse elettriche ad altri volontari che non riuscivano a rispondere correttamente alle domande, indipendentemente da quanta agonia stessero causando – aggiunse ulteriore legittimità ai risultati ottenuti.
Ma quanto fu realistico? E quanto i comportamenti di guardie e prigionieri spontanei?
Dave Eshelman, ora 62enne, era una delle guardie di Zimbardo – ovvero la guardia che divenne nota come “John Wayne“, il più autorevole e temibile di tutti.
“Quel primo giorno fu davvero tranquillo“, dice Eshelman (Fonte: https://stanfordprisonexperimentproject.wordpress.com/2017/11/28/and-another-blog-post/” . “Talmente tranquillo che presi la decisione di provocare qualcosa di interessante. Il mio pensiero era: “Qualcuno sta pagando molti soldi per questo esperimento e non sta succedendo nulla. Devono cercare di dimostrare che la prigione è un brutto ambiente, quindi la trasformerò in un brutto ambiente. “Così ho interpretato il personaggio da duro basandomi su: “Cool Hand Luke “e il nonnismo della fraternità che avevo subito l’anno precedente.“
Eshelman divenne quasi da subito il leader delle guardie e disse che la maggior parte delle cose che faceva fare ai prigionieri era comunque abbastanza innocua. “Metti in fila le persone, le gridi contro, le fai abbassare e fai eseguire 20 flessioni, fai girare un prigioniero verso un altro e gli fai gridare: “Ti amo” o qualcosa di simile, per metterlo in imbarazzo“, disse.
Eshelman stava prendendo lezioni di recitazione e considerava il suo ruolo come un’occasione per migliorare le sue doti attoriali.
“Tieni presente che tutti sapevano di essere costantemente filmati e fotografati“, disse. “A volte potevamo sentire Zimbardo e gli altri professori attraverso i muri. A un certo punto, Zimbardo è venuto da me e si è congratulato per l’ottimo lavoro.“
Ricordate l’ingresso della fidanzata di Zimbardo, e il tipo gentile e affascinante che incontro? Era proprio Eshelman. Il quale ancora oggi è perplesso dalla reazione della donna. “Quando mi ha visto diventare una guardia, mi ha visto diventare una persona crudele e sadica“, disse. “Ma quello che stavo facendo quando le stavo parlando era solo entrare al meglio nel personaggio“.
Dave Eshelman non è l’unico partecipante, in tempi recenti, ad aver rivelato retroscena dell’esperimento che ne smascherano i difetti profondi ed intrinseci.
“Penso che Zimbardo abbia voluto creare ad arte un crescendo drammatico, per poi terminarlo il più rapidamente possibile“, ha dichiarato John Mark -un’altra guardia– allo Stanford Magazine. “Sapeva quello che voleva e in base a ciò ha cercato di modellare l’esperimento – sia per come è stato costruito sia per come si è svolto – per adattarsi alle conclusioni che aveva già elaborato. Voleva essere in grado di dire che gli studenti universitari, generalmente persone di origine borghese e di elevata cultura – le persone diventano sadiche solo perché hanno un ruolo e un potere. Penso che sia stata una vera forzatura.“
A parlare, anche “l’esperto” della prigione di Zimbardo, il principale consulente dello Stanford Prison Experiment Carlo Prescott, che nel 2005 si è descritto sul giornale di Stanford come “un ex-detenuto afroamericano che ha scontato 17 anni a San Quintino per tentato omicidio“. Prescott scrisse che tutti gli abusi perpetrati dalle guardie erano le sue idee, basandosi sul suo tempo a San Quintino: “Affermare che tutte queste” guardie “caucasiche di classe medio-alta accuratamente testate, psicologicamente solide, inventarono autonomamente tutte queste torture è assurdo. “
Ancor prima che le persone coinvolte nella SPE parlassero, Zimbardo è stato criticato dai più importanti pensatori del settore. Nel 1973, il famoso psicologo tedesco Erich Fromm fece a pezzi l’esperimento. Nel suo libro: “Anatomia della Distruttività Umana“, Fromm scrisse che lo Stanford Prison Experiment era contaminato sin dall’inizio: i “prigionieri” non furono arrestati da veri ufficiali; furono fatti indossare abiti diversi da qualsiasi vero detenuto; i volontari si auto-selezionavano, e tutti di una classe e razza (tranne un partecipante asiatico); la maggior parte delle guardie non ha abusato dei prigionieri e in effetti alcuni hanno mostrato atti di gentilezza e compassione.
Soprattutto, tutti erano consapevoli di trovarsi in una prigione finta, e furono indebitamente sottoposti a “domanda palese”, tutte le cavie sapevano cosa ci si aspettava da loro e Zimbardo giocò con quelle stesse aspettative.
Un’analisi metodologica pubblicata su American Psychologist nel febbraio del 1975 giunse alla stessa conclusione: lo studio era imperfetto, dal concepimento all’esecuzione. Inoltre, Stanford Prison Experiment non è mai stato pubblicato in una rivista ufficiale e non è mai stato sottoposto a peer review.
Il professor Peter Grey, che ha insegnato psicologia al Boston College per 30 anni, è un altro critico di spicco – infatti, ha rifiutato di includere lo Stanford Prison Experiment nel suo famoso libro di testo “Psychology”, giunto ormai alla sua sesta edizione.
“Vedo davvero [lo S.P.E.] come recitazione“, dice Gray al The Post. “Studiare prigioni reali e vere guardie carcerarie – è molto più difficile, vero? Non è così ‘sexy’. A tutti i membri dello S.P.E. è stato chiesto di interpretare un certo ruolo. Quelli che improvvisarono furono chiamati sadici, ma potevi solo dire che stavano entrando nel vero spirito della cosa. “Ride. “È assurdo”, afferma. “È divertente. È davvero.“
Questo è esattamente ciò che Eshelman, considerato il peggiore di tutti, ha sempre sostenuto. “Era un buon teatro“, dice. “Non sono sicuro che fosse una buona scienza.“
Ricordate il detenuto #8612, ovvero il primo a gettare la spugna ed essere rilasciato? Il suo nome era Douglas Korpi, anch’egli studente della Stanford University. “Qualsiasi medico avrebbe riconosciuto la mia finzione”, ha confidato al magazine Medium, nella prima intervista che ha concesso in anni. “Se ascolti il nastro, è evidente. Non sono così bravo a recitare. Voglio dire, penso di aver fatto un buon lavoro, ma appaio più isterico che psicotico. “
Ora diventato psicologo forense, Korpi ha rivelato che la sua drammatica esibizione nello S.P.E. fu davvero ispirata dalla paura, ma non delle guardie. Era fortemente preoccupato di non riuscire a frequentare i corsi del suo corso di studi.
Ulteriori fonti e approfondimenti:
One of Psychology’s Most Famous Experiments Was Deeply Flawed