Ultimo aggiornamento: 18 Marzo 2020
Molte persone ritengono che guarire dal COVID-19 garantisca immunità contro lo stesso per tutto il resto della vita. In realtà diversi studi scientifici provenienti da Giappone e Cina, nonché precedenti studi sulla SARS del 2002, sembrano suggerire, sfortunatamente, qualcosa di diverso.
Casi di recidiva COVID-2019
Lo dimostra ad esempio il caso giapponese di una donna, autista di autobus, che si è rivelata positiva al test dopo essere guarita da una prima infezione da SARS-CoV2.
Questo caso dimostra effettivamente che è possibile una nuova infezione da virus? O è stato solo un errore nei test? O la persona aveva un sistema immunitario particolarmente debole da non poter sviluppare immunità? In fondo, potrebbe trattarsi solo di un caso isolato.
E invece…
Secondo un rapporto scientifico più recente del NHK-World Japan qualcosa di simile è successo di nuovo. Questa volta è toccato a un uomo sulla settantina, risultato per la prima volta positivo al SARS-CoV2 il 14 febbraio mentre era sulla nave da crociera Diamond Princess: dopo essere stato trasferito in una struttura ospedaliera di Tokyo, rimase lì fino a quando non risultò negativo al test. Il 2 marzo lasciò la struttura e tornò a casa utilizzando i mezzi pubblici. Ebbene, l’uomo ha iniziato nuovamente a presentare sintomi come la febbre, che lo ha spinto ad andare in ospedale il 13 marzo. Il giorno seguente è risultato nuovamente positivo al virus.
Inoltre l’articolo del 14 febbraio di Caixin, un media center di Pechino, fornisce una statistica inquietante: “Il 14% dei pazienti guariti dal Covid-19 nel Guangdong è risultato nuovamente positivo”
Ma come dobbiamo interpretare questi dati?
È importante precisare che per ora stiamo parlando solo di notizie e non ancora di veri e propri studi scientifici. In questo contesto possiamo fare diverse considerazioni:
- Innanzitutto, gli scienziati devono confermare se i risultati del test sono stati davvero accurati. Nessun test è perfetto e, anche se viene eseguito correttamente, potrebbe mostrare risultati falsi positivi o falsi negativi (ecco perché è molto frequente che un test venga ripetuto più e più volte).
- È necessario stabilire con certezza se questi pazienti abbiano subìto un effettivo duplice contagio oppure se è possibile che non avessero estinto completamente l’infezione originaria. È credibile pensare, ad esempio, che i due casi sopra citati abbiano avuto un periodo di malattia talmente lungo che i risultati dei test finali effettuati su di loro potessero essere dei falsi negativi.
- La possibilità o meno di sviluppare un’efficiente immunità dopo il contagio da qualsiasi tipo di virus dipende in primo luogo dalla forza del sistema immunitario e dalla sua risposta all’esposizione ai vari agenti patogeni: quando il sistema immunitario entra in contatto per la prima volta con un particolare virus, può essenzialmente trovarsi impreparato a gestire l’invasione e di conseguenza non riuscire a difendere l’organismo attaccato. Tuttavia, l’esposizione al virus attraverso un vaccino o all’infezione stessa può “addestrare” il sistema immunitario in modo tale che, trovandosi nuovamente a dover fronteggiare un’invasione patogena, possa sconfiggerla.
L’importanza del sistema immunitario
I casi di re-infezione potrebbero quindi essere esempi di persone i cui sistemi immunitari erano più deboli? O questi casi indicano che il nostro sistema immunitario potrebbe non essere in grado di creare in modo coerente una protezione sufficiente contro il SARS-CoV2?
Bene, un articolo di revisione scientifica pubblicato nel gennaio 2020 sul Journal of Medical Virology sintetizza gran parte di ciò che si sa sulla risposta del sistema immunitario ai vari tipi di coronavirus. Come spiegato da questa pubblicazione, in gioco ci sono molteplici tipi di cellule e sostanze chimiche diverse. Pertanto, la risposta immunitaria a un virus non sarà necessariamente la stessa di quella ad un altro virus, anche se entrambi gli agenti patogeni erano diversi ceppi dello stesso coronavirus. Tutto ciò dipende quindi da quanto forte può essere il sistema immunitario e da quanto bene lo stesso riconosce un invasore come SARS-CoV2.
Inoltre, ogni sistema immunitario deve sviluppare una sorta di “memoria” nei confronti del virus. Nel tempo, l’immunità può svanire, consentendo al virus di re-infettare lo stesso individuo.
La domanda allora è:
Per quanto tempo il tuo sistema immunitario può “ricordare” il SARS-CoV2?
Con il virus SARS-CoV2 diffuso così rapidamente, non ci sono ancora abbastanza studi su come il sistema immunitario possa reagire specificamente a questo virus e su come gli effetti dello stesso possano variare da persona a persona.
Pertanto, per il momento, dobbiamo fare affidamento sugli studi effettuati si altri tipi di coronavirus. L’esempio più coerente è probabilmente il “cugino” di SARS-CoV2, il virus SARS originale apparso nel 2002-2003 (SARS-CoV).
Nello studio: “Duration of Antibody Responses after Severe Acute Respiratory Syndrome” pubblicato in un numero del 2007 di Emerging Infectious Diseases, un team di ricerca del Centro provinciale per il controllo e la prevenzione delle malattie di Shanxi a Taiyuan, in Cina, ha seguito 176 pazienti affetti da sindrome respiratoria acuta grave (SARS). In media, gli anticorpi specifici per la SARS sono rimasti allo stesso livello nel sangue di un paziente per circa due anni. Quindi, durante il terzo anno dopo l’infezione, i livelli di anticorpi tendevano a scendere precipitosamente. Ciò suggerisce che l’immunità al virus SARS può rimanere per due o tre anni con re-infezione possibile dopo questo lasso di tempo.
Tuttavia, è bene precisare che i livelli di anticorpi non sono sempre correlati ad un’effettiva immunità, ma possono essere solo misure indirette di ciò che sta realmente accadendo a un livello più profondo. Alcune persone possono sviluppare una buona immunità contro un virus senza avere livelli di anticorpi rilevabili, mentre altre possono essere molto sensibili all’infezione anche se sono presenti tanti anticorpi. Nel caso specifico preso in considerazione, l’unico modo per determinare se i pazienti fossero effettivamente immuni alla SARS sarebbe stato quello di ri-esporli al virus e controllare cosa sarebbe successo. E ovviamente, a livello etico e morale, sarebbe stato un esperimento quanto meno sadico da proporre.
L’altra domanda è:
Quante diverse versioni di SARS-CoV2 ci sono e possono diffondersi?
È difficile rispondere a questa domanda senza ricerche scientifiche approfondite. Secondo uno studio pubblicato sulla rivista National Science Review, un’analisi dei campioni di 103 casi COVID-19 suggerisce che circolano almeno due diversi tipi di SARS-CoV2. Ciò non significa necessariamente che queste due versioni siano così diverse da dover presupporre due risposte immunitarie differenti. Indipendentemente da ciò, le cose potrebbero evolversi nel prossimo futuro: nel tempo, il nuovo coronavirus potrebbe mutare al punto che le nuove versioni non saranno più riconoscibili dal sistema immunitario tanto quanto la versione originale. Dopotutto, le mutazioni sono probabilmente ciò che ha permesso al virus di poter essere trasmesso da animale a uomo.
La teoria dell’immunità di gregge (alias: ciò su cui si fonda l’approccio di Boris Johnson alla pandemia di coronavirus)
Questa teoria ipotizza che non appena una percentuale sufficientemente elevata della popolazione è stata infettata, è guarita e pertanto è diventata immune, la pandemia si placherà. L’efficacia della cosiddetta “immunità di gregge” corrisponde a quanto è alta la percentuale della popolazione complessiva che è immune ad un determinato agente patogeno: quanto più questa percentuale è elevata, tanto più il virus farà fatica a trovare organismi più sensibili da infettare.
Tuttavia, questo assunto potrebbe mostrare tutti i suoi limiti nel momento in cui si verificasse una percentuale significativa di re-infezioni da SARS-CoV2.
Tali possibilità mettono ancor più in discussione l’approccio “immunità di gregge” come controllo della pandemia, preso in considerazione dal Regno Unito che, dal momento che non esiste un vaccino disponibile contro il SARS-CoV2, vuole “consentire” agli individui con sistemi immunitari più forti di essere infettati, in modo da raggiungere il 70% (60%, secondo altre fonti) circa della soglia di immunità.
Sulla carta la teoria ha un senso. Tuttavia:
- Coloro che vengono infettati potrebbero subire gravi conseguenze, non ultima la morte. Questa ipotesi, va precisato, è stata messa in conto dal Premier britannico, ma qui andiamo al punto 2;
- Questa strategia si basa sul presupposto che le persone non possano venire nuovamente infettate dal virus, e abbiamo visto che potrebbe non essere così;
- Questa strategia presuppone la chiusura totale delle frontiere nazionali inglesi: l’immunità di gregge viene completamente sballata, percentualmente, se all’interno del territorio si aggiungono persone potenzialmente non immuni.
L’approccio inglese, quindi, è corretto o scellerato? Solo il tempo e maggiori studi sul nuovo coronavirus potranno dirlo.
La verità è che sono ancora troppe le domande a cui non abbiamo una risposta certa per poter mettere in atto una strategia di questo tipo: quale percentuale di persone diventa immune al virus se esposta? Quanto è forte l’immunità? Potrà effettivamente prevenire la reinfezione? Quanto durerebbe questa immunità? Durerà due anni come suggerisce lo studio sulla SARS o potrebbe essere molto più breve? In che modo tutto ciò varia da persona a persona? Quante ulteriori mutazioni del virus potrebbero circolare?
Better Safe than Sorry: sii prudente. Sempre.
Se ti ammali e guarisci, continua a fare ciò che tutti dovrebbero fare come evitare di uscire di casa, limitare i contatti sociali a meno del minimo indispensabile e lavare le mani frequentemente e accuratamente.
Il migliore consiglio che ti si può dare, in questo momento, è di mantenere, comunque un elevato stato di allerta personale.